[...] Il fascismo vuole guarire gli
Italiani dalla lotta
politica, giungere a un punto in cui, fatto l'appello nominale, tutti i
cittadini abbiano dichiarato di credere nella patria, come se col
professare
delle convinzioni si esaurisse tutta la praxis sociale. Insegnare a
costoro
la superiorità dell'anarchia sulle dottrine democratiche
sarebbe
un troppo lungo discorso, e poi, per certi elogi, nessun migliore
panegirista
della pratica. L'attualismo, il garibaldinismo, il fascismo sono
espedienti
attraverso cui l'inguaribile fiducia ottimistica dell'infanzia ama
contemplare
il mondo semplificato secondo le proprie misure. La nostra polemica
contro
gli italiani non muove da nessuna adesione a supposte
maturità straniere;
né da fiducia in atteggiamenti protestanti o liberisti. Il
nostro
antifascismo prima che un'ideologia, è un istinto.
Se
il nuovo si può riportare utilmente a
schemi e ad approssimazioni antichi, il nostro vorrebbe essere un
pessimismo
sul serio, un pessimismo da Vecchio Testamento senza palingenesi, non
il
pessimismo letterario dei cristiani [che si potrebbe definire la
delusione
di un ottimista] delusione di ottimisti. La lotta tra
serietà e
dannunzianesimo è antica e senza rimedio. Bisogna diffidare
delle
conversioni, e credere più alla storia che al progresso,
concepire
il nostro lavoro come un esercizio spirituale, che ha la sua
necessità
in sé, non nel suo divulgarsi. C'è un valore
incrollabile
al mondo: l'intransigenza e noi ne saremmo, per un certo senso, in
questo
momento, i disperati acerdoti. Temiamo che pochi siano così
coraggiosamente
radicali da sospettare che con queste metafisiche ci si possa
incontrare
nel problema politico. Ma la nostra ingenuità è
più
esperta di talune corruzioni e in certe teorie autobiografiche ha
già
sottinteso un insolente realismo obbiettivo. Noi vediamo diffondersi
con
preoccupazione una paura dell'imprevisto che seguiteremo ad indicare
come
provinciale per non ricorrere a più allarmanti definizioni.
Ma di
certi difetti sostanziali anche in un popolo "nipote" di Machiavelli
non
sapremmo capacitarci, se venisse l'ora dei conti. Il fascismo in Italia
è [una catastrofe,] un'indicazione di infanzia [decisiva]
perché
segna il trionfo della facilità, della fiducia,
[dell'ottimismo,]
dell'entusiasmo. Si può ragionare del ministero Mussolini
come di
un fatto d'ordinaria amministrazione. Ma il fascismo è stato
qualcosa
di più; è stato l'autobiografia della nazione.
Una nazione
che crede alla collaborazione delle classi, che rinuncia per pigrizia
alla
lotta politica, [è una nazione che vale poco] dovrebbe
essere guardata
e guidata con qualche precauzione. Confessiamo di avere sperato che la
lotta tra fascisti e social-comunisti dovesse continuare senza posa: e
pensammo nel settembre del 1920 e pubblicammo nel febbraio del 1922 La
Rivoluzione Liberale con fiducia verso la lotta politica che attraverso
tante corruzioni, corrotta essa stessa, tuttavia sorgeva. In Italia
c'era
della gente che si faceva ammazzare per un'idea, per un interesse, per
una malattia di retorica! Ma già scorgevamo i segni della
stanchezza,
i sospiri alla pace. E' difficile capire che la vita è
tragica,
che il suicidio è più una pratica quotidiana che
una misura
di eccezione. In Italia non ci sono proletari e borghesi: ci sono
soltanto
classi medie. Lo sapevamo: e se non lo avessimo saputo ce lo avrebbe
insegnato
Giolitti. Mussolini non è dunque nulla di nuovo: ma con
Mussolini
ci si offre la prova sperimentale dell'unanimità, ci si
attesta
l'inesistenza di minoranze eroiche, la fine provvisoria delle eresie.
[Abbiamo
astuzie sufficienti per prevedere che tra sei mesi molti si saranno
stancati
del duce: ma] Certe ore di ebbrezza valgono per confessioni e la
palingenesi
fascista ci ha attestato inesorabilmente l'impudenza della nostra
impotenza.
A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di
sacrificio.
Noi pensiamo anche a ciò che non si vede: ma se ci si
attenesse
a quello che si vede bisognerebbe confessare che la guerra è
stata
invano. Privi di interessi reali, distinti, necessari gli Italiani
chiedono
una disciplina e uno Stato forte. Ma è difficile pensare
Cesare
senza Pompeo, Roma forte senza guerra civile. Si può credere
all'utilità
dei tutori e giustificare Giolitti e Nitti, ma i padroni servono
soltanto
per farci ripensare a La Congiura dei Pazzi ossia ci riportano a
costumi
politici sorpassati. Né Mussolini né Vittorio
Emanuele hanno
virtù di padroni, ma gli Italiani hanno bene animo di
schiavi. E'
doloroso [per chi lavora da anni] dover pensare con nostalgia
all'illuminismo
libertario e alle congiure. Eppure, siamo sinceri fino in fondo, [io ho
atteso] c'è chi ha atteso ansiosamente che venissero le
persecuzioni
personali perché dalle sofferenze rinascesse uno spirito,
perché
nel sacrificio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse se stesso.
C'è stato in noi, nel nostro opporsi fermo, qualcosa di
donchisciottesco.
Ma ci si sentiva pure una disperata
religiosità.
Non possiamo illuderci di aver salvato
la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo e bisogna sperare
(ahimè,
con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione
sia
reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la
ghigliottina,
che si mantengano le posizioni sino in fondo. Si può
valorizzare
il regime; si può cercare di ottenerne tutti i frutti:
chiediamo
le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia
perché
si possa veder chiaro. Mussolini può essere un eccellente
Ignazio
di Loyola; dove c'è un De Maistre che sappia dare una
dottrina,
un'intransigenza alla sua spada?
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